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Avvertenza: Non per tutti.
Scritto da: Maurizio Fogar

Salvador Allende, Giuseppe Dossetti, Tom Hanks.

Per uno di quei rari casi della vita mi capitò di ascoltare in TiVù assieme all’ex senatore dell’allora PCI, Vittorio Vidali, il comandante Carlos del Quinto Reggimento nella guerra civile spagnola, l’ultimo appello radiofonico dal Palazzo della Moneda del Presidente cileno, il socialista Salvador Allende, di lì a poco ucciso dai golpisti del generale Pinochet.

Una delle sue ultime frasi ci colpì molto, nel rimbombo degli scoppi delle granate che entravano nel microfono, e mi riempì di tristezza fino alle lacrime. La ricordo con intensa emozione ancora oggi. “Essi hanno la forza, non la ragione”. E in quel mentre vidi un anziano Vidali accendersi di colpo, con uno sguardo di fuoco, ed esclamare: “No, Allende sbaglia. Noi dobbiamo avere la ragione e la forza per difenderla”.

Giuseppe Dossetti, forse il leader più prestigioso della nascente Democrazia Cristiana, si battè a lungo per inserire, all’Assemblea Costituente, un articolo nella Carta costituzionale che riconoscesse non solo il diritto ma anche il dovere dei cittadini di non rispettare e di disubbidire e battersi contro una legge sbagliata dello Stato.

Tom Hanks, meraviglioso protagonista nel film “Philadelphia”, ad un certo punto, rispondendo ad una domanda nel corso del processo sul perché avesse scelto la carriera di avvocato, rispose così: “Perché talvolta, non sempre, il diritto si fa, diventa giustizia”.

Bene cosa ci azzecca tutto questo? Con l’Italia, con Trieste, con noi oggi?

Io credo molto. A partire da una lezione semplice ma fondamentale.

Chi ambisce a spendersi per contribuire a governare la sua comunità, insomma chi sente il bisogno di impegnarsi in politica, deve sapere che la sua conoscenza, le sue capacità ed esperienze devono essere arricchite giorno dopo giorno dall’imparare, dallo studiare, dal conoscere la storia della sua terra; dalla capacità di ascoltare e confrontarsi nel modo più aperto, e certamente anche faticoso, con le persone che vivono lo stesso suo territorio; dal rispetto costantemente praticato degli impegni assunti e sopra di ogni cosa dal richiamarsi sempre al senso profondo di legalità, giustizia non disgiunta da attenzione sociale verso i più deboli e meno garantiti, e conseguente rispetto delle istituzioni, che nasce proprio da un impegno così esercitato. Altrimenti le istituzioni, i partiti e le forze politiche non hanno titolo alcuno per rivendicare da terzi un rispetto ed una fiducia che sono essi per primi a tradire.

Tutto questo, che dovrebbe essere l’A,B,C di una normale democrazia oggi non sta avvenendo. Ed a Trieste in particolare.

Ebbene per ripartire da una qualunque ipotesi di rifondazione della politica, del bene amministrare la nostra comunità, è da qui che bisogna iniziare.

Innanzitutto dal significato reale delle parole e dei linguaggi che si usano. La parola ha un valore profondo e deve essere universalmente riconosciuto, altrimenti non ci può essere comprensione alcuna né valore comune.

Per fare un esempio pratico da capirci subito: quando un politico dice “la settimana prossima inizieranno i lavori per la copertura delle vasche fognarie del depuratore cittadino” (situato nel cuore di Trieste ed i cui miasmi appestano migliaia di persone), era il novembre 1999. Ed oggi, 2015, la situazione è tale e quale, una persona normale si domanda, prima di chiedersi quanto inaffidabile sia questo politico-assessore comunale, e di conseguenza quanto non credibile sia l’istituzione Comune, quale sia il senso del tempo, quali i calendari che i politici usano.

Il paragone viene ancora più immediato con il Magazzino Vini sulle Rive. Quanti sindaci, da Illy a Dipiazza hanno spergiurato che “tempo quaranta giorni quei ruderi spariranno” ed allora una persona normale si domanda come potrebbe tenere in vita la sua famiglia, la sua casa se si comportasse, nelle scelte piccole o grandi che si trova ad affrontare ogni giorno, allo stesso modo degli amministratori della nostra comunità.

Dunque la parola, sia nel significato che nel rispetto, è la pietra fondante di una nuova politica. Oggi infatti anche se i termini sono apparentemente gli stessi, la politica e la gente comune, la società normale insomma, parlano due lingue assolutamente incomprensibili tra loro. Dove la stessa parola assume significati completamente diversi.

Da qui scende una scala di priorità nel fare e nel decidere assolutamente avulsa dai bisogni reali della comunità.

La sanità tradizionalmente è un esempio praeclaro, la tutela della salute, ed oggi la difesa di una sempre più impoverita qualità della vita altrettanto. Ma per la politica “nei fatti” non è così. Magari ne parlano perchè “bisogna”, per pigliare qualche voto, ma la realtà rimane grave e peggiora ancora di più. Uno degli esempi ridicolmente peggiori è stato quello di una amministrazione comunale incapace di chiudere la vicenda dei 39 (si trentanove) posti macchina di Largo Granatieri, prima riservati ad assessori e consiglieri. Diverse sedute del Consiglio in più anni, oltre un centinaio di interrogazioni ed interpellanze, ripetiamo per 39 posti macchina!

Come vedete volutamente non tocco la questione Ferriera, irrisolta dal 1998, la cartina di tornasole del fallimento generalizzato di una intera classe dirigente, non solo politica.

In un sistema, come quello odierno a Trieste ed in Regione, dove praticamente quasi nessuno è esente da gravi responsabilità che stanno ipotecando pesantemente il futuro di centinaia di migliaia di persone. Dove le istituzioni sono le vittime prime di questi comportamenti e dunque legittimano da un lato un’astensione dal voto e dalla partecipazione che non ha rivali in Italia, e dall’altro una crisi di credibilità e di fiducia che rende ai cittadini vieppiù insopportabili i richiami “al rispetto delle leggi” che da queste provengano. Gli appelli poi alle “comuni regole del gioco” fatti da certi personaggi paiono perfino, a tutti ma non ovviamente a loro, grotteschi. Come pretendere che uno si sieda a giocare, parola sempre infelice quando si parla della vita reale, ad un tavolo con quattro bari. Ma diamine, uno sano d’intelletto quel tavolo lo rovescia a calci!

Dunque cambiare, ma come e in che modo? “Che fare?” scrisse un signore dal nome Lenin.

Partiamo da una semplice constatazione, che però è sempre bene ripetere.

Stiamo parlando di come amministrare la nostra terra, con il consenso più ampio possibile e la partecipazione delle persone che ci vivono più male che bene, e questo vale oggi anche per quelle che una volta ci stavano benino.

Partiti e movimenti hanno fin qui dimostrato tutti i loro limiti, a partire da quelli personali di chi li rappresenta. La risposta dei cittadini alle loro scarse iniziative, anche di quelli che fin qui li hanno votati, è stata praticamente nulla: gli addetti ai lavori per lo più ed i mestieranti di professione, molto spesso con una caratura umana, un livore ed un’arroganza da lasciare basiti.

Ma non sono gli unici. Gran parte dei cittadini sta vivendo questa fase di imbarbarimento e di asocialità. Basta fermarsi un attimo per strada e guardarsi attorno. Sono più le persone, non parliamo poi degli adolescenti e dei giovanissimi, che camminano con lo sguardo fisso sui loro telefonini, iphone o cosa diavolo siano, le cuffiette nelle orecchie, parlando e gesticolando da soli come invasati, spedendo sms a cottimo che neanche Stachanov.

Indifferenti quanto insofferenti di tutto quanto li circonda.

Lo stesso vale per l’uso parossistico dei social su internet, da qui il successo di Twitter, proprio perché non devi superare i 140 caratteri, insomma due righette o poco più.

Una valanga di messaggi e commenti di pochissime lettere, un riproporre foto e pezzi altrui perché gran parte di loro non ha nulla da scrivere o non lo sa fare. Si va sulla quantità pantagruelica, sul divorare schermate, sul lasciare tonnellate di “mi piace”, certamente non si pensa nemmeno di andare a leggere pezzi lunghi come questi e graficamente per nulla invitanti.

La riprova sta negli annunci di partecipazione agli “eventi”. Mediamente i “parteciperò” ed i “forse” sono centinaia, la realtà non supera le dita di una mano. Ed allora perché lo fanno? Chi li obbliga, perché sentono la necessità di annunciare un impegno, di promettere, se sanno da subito che non manterranno la parola data?

Apparire, anche solo così, questa è la risposta, sconsolante ma vera.

Bene, fine della prima puntata, ci leggiamo a presto. E se qualcuno vuol partecipare …



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